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Con lo spettacolo “Il baciamano” scritto da Manlio Santanelli, interpretato da Annarita Vitolo e Vincenzo Albano, regia di Antonio Grimaldi, giovedì 24 aprile a Napoli, nella Chiesa della Santa Croce e del Purgatorio alle 20:30, si chiudono i Seminari teatralizzati sulla Repubblica Partenopea organizzati dalla testata multimediale Il BriganteGiammarino Editore. L’ingresso è gratuito.

La pièce pur conservando alcuni elementi tipici del teatro di Santanelli, si presenta come un’opera a se stante. Infatti, nonostante faccia parte del teatro dell’assurdo e del grottesco, risulta assente quel gioco al massacro, quella curiosità morbosa per la vita e per gli oggetti altrui, che è alla base del teatro santanelliano. Che cosa hanno in comune tra loro Janara, giovane popolana avvizzita prima del tempo, e il gentiluomo che, legato mani e piedi, le è stato portato in casa dal marito? Non l’idioma, giacché la donna parla il napoletano basso e intriso di spagnolismi caro ai lazzari, vale a dire quel particolare tipo di lebe di cui Napoli vanta l’esclusiva nel tempo e nello spazio: mentre l’uomo si esprime in un italiano, se non forbito, quantomeno conforme alla borghesia colta e francofona a cui appartiene per nascita. Non la fede, giacché lei ostenta il fanatismo proprio delle masse meridionali, furore parareligioso che ha fatto la punta alla croce e la maneggia come una spada – è a quelle masse che si è appellato il Cardinale Ruffo per reprimere nel sangue la Rivoluzione del ’99; mentre lui si limita ad usare l’arma, ahimè non altrettanto devastatrice, della ragione, presa a prestito dai testi sacri dell’Illuminismo europeo. Non la città di origine, perché se è vero che entrambi sono nati nel capoluogo campano, allora capitale del Regno, è altrettanto vero che a quel tempo – ma la situazione non è granché mutata oggigiorno – esistevano tante Napoli quanti erano gli strati etnici e sociali che ne componevano la popolazione. Men che meno i due hanno in comune il passato, che nel caso del gentiluomo siamo autorizzati a immaginare ovattato da confortevoli natali e da un patrimonio familiare in grado di garantire la soddisfazione di qualsivoglia esigenza; laddove Janara – e lo apprendiamo dalla sua viva voce – ha sempre dovuto fare i conti con la fame, con gli stenti, con le violenze dei genitori prima e del marito poi (ha sempre “gettato il veleno”, come si usa dire dalle sue parti).

Come mai, allora, due creature tanto lontane l’una dall’altra si scoprono infine partecipi dello stesso destino, che in qualche modo ne parifica la condizione, le fa apparire solidali ancorché inchiodate a ruoli fatalmente contrapposti? Della risposta a quest’ultimo interrogativo si fa carico “Il baciamano”, nella sincera speranza che risulti il più possibile esauriente e, allo stesso tempo, nella profonda convinzione che tra le molte finalità del teatro vi sia anche quella di arrivare a dimostrare ciò che altre discipline ritengono indimostrabile.