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Stagione di Concerti:

Marco Armiliato e Giovanni Andrea Zanon

domani venerdì 17 marzo alle 19 al Politeama

Giunge al termine la breve trasferta del Teatro di San Carlo al Politeama resa necessaria dai lavori di restauro che hanno interessato la sala storica del Lirico di Napoli.

Ultimo appuntamento nel Teatro di via Monte di Dio è il concerto in programma domani venerdì 17 marzo alle ore 19, che vedrà sul podio Marco Armiliato impegnato a dirigere l’Orchestra e Giovanni Andrea Zanon, giovane e talentuoso interprete del violino, tra i più interessanti della sua generazione.

Il programma del concerto include l’Ouverture da La sposa venduta di Bedřich Smetana, il Concerto in mi minore per violino e orchestra, op. 64diFelix Mendelssohn-Bartholdy e la Sinfonia n. 7 in re minore, op. 70 di Antonín Dvořák.

Marco Armiliato è oggi uno dei più richiesti direttori d’orchestra ed è spesso ospite dei più prestigiosi teatri d’opera del mondo. La sua straordinaria carriera lo ha portato a dirigere in teatri come il Metropolitan di New York (dove ha diretto quasi 500 rappresentazioni), la Wiener Staatsoper, la Bayerische Staatsoper, la Deutsche Oper di Berlino, il Covent Garden di Londra, l’Opéra National de Paris, l’Opernhaus Zürich, il Teatro Real di Madrid, il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, il Teatro alla Scala e il Festival di Salisburgo. Nel 2022 è stato nominato direttore musicale del Festival dell’Arena di Verona. Il suo lungo sodalizio con la Wiener Staatsoper, dove ha diretto finora oltre 300 spettacoli, gli è valso il titolo di “Membro onorario della Wiener Staatsoper” nel 2019. Marco Armiliato ha all’attivo numerose registrazioni con alcuni dei maggiori cantanti del nostro tempo, come Anna Netrebko, Jonas Kaufmann e Rolando Villazon e Marina Rebeka. La sua incisione “Verismo Arias” con Renée Fleming ha vinto un Grammy Award nel 2010 e “Romantic Arias” con Jonas Kaufmann il Diapason d’or nel 2009.

Giovanni Andrea Zanon, classe 1998 è vincitore di oltre 30 concorsi nazionali ed internazionali, tra cui il Premio Nazionale delle Arti come miglior violinista dei conservatori italiani, il concorso di Novosibirsk in Russia dove ottiene anche tutti i premi speciali ed il diploma di laurea al Wieniawski and Lipinski Violin Competition di Lublino. In qualità di solista si esibisce in alcune delle sale più prestigiose, tra le quali la Carnegie Hall di New York, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro La Fenice di Venezia, la Smetana Hall di Praga, la Bayerische Staatsoper di Monaco, il Festspielhaus di Baden-Baden, il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, la Royal Opera House di Muscat, l’Auditorium Parco della Musica di Roma e l’Arena di Verona. Ha partecipato a numerosi progetti di musica da camera, che lo hanno portato ad esibirsi al fianco di artisti come Pinchas Zukerman, Anna Netrebko, Mario Brunello e Pablo Ferrandez. Riceve numerose menzioni e riconoscimenti fra i quali, a sei anni, la menzione del Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, il Leone d’Oro dalla Regione Veneto per i meriti artistici conseguiti all’estero e la nomina di Alfiere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella.

Guida all’ascolto

di Gianluca D’Agostino

TRE CLASSICI DEL SINFONISMO TARDOROMANTICO: MENDELSSOHN, SMETANA, DVOŘÁK

Smetana, Prodaná nevěsta (“La sposa venduta”), Ouverture

Bedrich Smetana (1824-1884) è generalmente noto soprattutto per il poema sinfonico Ma vlast (“La mia patria”), di cui fa parte la La Moldava, celeberrima descrizione musicale della natura boema. Meno nota è la sua produzione operistica, che tuttavia ha una notevole valenza estetica e poetica, perché finalizzata a rafforzare la coscienza dell’unità nazionale ceca, in quella che fu una lunga lotta, politica ma anche culturale ed artistica, per affrancarsi dalla monarchia austriaca. Infatti negli sforzi fatti dagli studiosi, e rivolti alle classi medie ed elevate, per risollevare la storia, la cultura, la lingua e le tradizioni patrie, s’iscrive a pieno titolo anche l’operato svolto in musica da Smetana.

Egli, appunto, dopo sei anni di esilio a Goteborg, tornò a Praga nel 1862, e da quel momento contribuì decisivamente all’apertura di un “Teatro Provvisorio” che andasse inteso come preparatorio di quello “Nazionale”. In quel teatro fu rappresentata nel 1866 La sposa venduta, che poi è la più celebre delle otto opere costituenti il suo catalogo teatrale, e che può definirsi un’opera buffa nel senso tradizionale del termine, basandosi sulla la storia di una coppia di paesani che corona il proprio sogno d’amore in barba alla ridicola opposizione delle famiglie.

L’Ouverture, brano “vivacissimo”, eseguito con dinamiche quasi sempre basse e come sussurrate, è all’insegna di saettanti scambi ritmico-motivici che rimbalzano da una sezione orchestrale all’altra, alla stregua di un moto perpetuo, ed in questo senso parrebbe memore dello stile di Mendelssohn, che poi era uno dei grandi idoli romantici alla cui scuola il boemo si era idealmente formato (gli altri essendo Schumann, Liszt, Wagner). Altri invece hanno scorto analogie, nello spirito più che altro, con pagine donizettiane.

L’invenzione tematico-melodica non è certo il dato pregnante, mentre lo è quella ritmica, essendo d’altronde l’intento del brano, un’ouverture, appunto, quello di destare l’attenzione del pubblico con il dovuto brio e di prepararlo all’azione scenica. Vi è riconoscibile una struttura ternaria (ABA’) con un breve interludio più lirico al centro, e poi una coda finale.


Mendelssohn, Concerto per violino e orchestra op. 64.

Il celeberrimo Concerto per violino di Mendelssohn fu commissionato dal suo amico e virtuoso Ferdinand David, allora primo violino alla Gewandhaus Orchestra di Lipsia, il prestigioso organico di cui il compositore era direttore principale dal 1835. Sebbene concepita nel 1838, ci vollero altri sei anni perché la partitura fosse completata (1844) e un altro ancora perché venisse eseguita in prima esecuzione, per opera del David ma sotto la direzione del danese Niels Gade, in quanto l’autore era allora in cattive condizioni di salute. Durante tutto l’arco temporale della composizione Mendelssohn mantenne una corrispondenza regolare con il violinista, chiedendogli frequenti consigli e ragguagli soprattutto tecnici. D’altra parte la sostanza musicale è interamente farina del suo sacco, come si evince fin da una nota del 1838 in cui il compositore rivelò al violinista di avere già ben chiari in mente la tonalità d’impianto e il tema principale, quel “Mi minore che mi ronza in testa da tempo, ed il cui inizio non mi dà pace”. Successivamente alla prima esecuzione, nell’ottobre 1845 il concerto sarebbe stato replicato sempre dal violinista David, ma questa volta sotto la direzione dell’autore, ottenendo un enorme successo, e poi di nuovo eseguito nel 1847 dal giovane violinista Joseph Joachim, pupillo di Mendelssohn, che era divenuto famoso per l’esecuzione del concerto per violino in re maggiore di Beethoven, l’altra pietra miliare del repertorio concertistico per violino, dal confronto con la quale Mendelssohn ovviamente non poté sottrarsi. Già verso la fine del secolo il Concerto di Mendelssohn era divenuto un cimento ineludibile dei migliori virtuosi dello strumento. Molti e notevoli sono gli spunti innovativi di quest’opera, che davvero segna una forte transizione tra periodo classico e romantico: a partire dal notissimo incipit “in medias res”, con il quale Mendelssohn rinunciò alla tradizionale esposizione orchestrale, facendo iniziare il concerto dal solista, e proseguendo con l’altra novità dei tre movimenti (“Allegro molto appassionato”, “Andante”, “Allegretto non troppo-Allegro molto vivace”) che non solo sono collegati armonicamente e melodicamente fra loro, ma che risultano proprio attaccati l’un altro, come se non ci fosse soluzione di continuità. Il che conferisce all’opera il carattere di una forma ciclica, altro elemento tipico dello stile musicale romantico. Anche il fatto che il solista non di rado accompagni l’orchestra con ampi e prolungati arpeggi costituì una novità per gli ascoltatori del tempo. Il concerto inizia con l’entrata quasi immediata del violino, che esegue il famoso tema in mi minore che gli conferisce la sua tipica impronta e che certamente contribuì a fargli acquistare fama immediata.

Dopo alcuni passaggi solistici di agilità su rapide scale discendenti e poi di note ascendenti – che servono anche a mettere in chiaro, per così dire, il carattere di brillantezza e al contempo di sfida tecnica che permea tutta l’opera – il tema è ripetuto e ribadito sontuosamente dall’orchestra. C’è quindi un episodio di transizione abbastanza lungo in cui la sonorità orchestrale, e specialmente certe fanfare, ricorda alquanto Beethoven, dopo di che il violino riprende la scena per quella che sembra essere una prima conclusione, a metà tra il brillante ed il lirico. C’è quindi una netta cesura e dopo, con la tipica compostezza “classicistica” e nel contempo la ripulsa di ogni “risvolto inquietante dello slancio ideale verso l’assoluto” (Di Benedetto) che caratterizzano Mendelssohn, si modula tranquillamente ad un secondo soggetto in sol maggiore, molto delicato e sognante: la melodia è inizialmente eseguita dagli strumenti a fiato, con il solista che fornisce una sorta di pedale di accompagnamento, e poi ripresa dal violino stesso ed eseguita in modo assai galante. Dopo il violino riprende improvviso vigore e una codetta termina a questo punto l’esposizione del primo movimento, cui segue lo sviluppo in cui i due temi fondamentali sono combinati tra loro; qui non ci sono altre novità tematiche salienti da far notare, mentre è il carattere virtuosistico ad imporsi nuovamente, assieme ad alcune soluzioni (scale ascendenti del solista che sfociano in prolungati tremoli dell’orchestra) che sanno di concessioni retoriche e un po’ teatrali. La ripresa della coda del primo tema e altri frammenti di esso sono ancora distribuiti tra solo e tutti, sempre attraverso la tipica oscillazione tra brillantezza e lirismo, prima di pervenire alla famosa cadenza del violino solo, che è un altro elemento innovativo del brano, perché Mendelssohn la scrisse per esteso, anziché lasciarla improvvisare al solista. Essa si caratterizza per il procedimento di intensificazione ritmica: da passaggi in crome si va ad altri in terzine e quindi si passa a trilli e a rapidissimi arpeggi in semicrome che ricordano addirittura Bach (e che impegnano il solista nella tecnica del far rimbalzare l’archetto), sui quali ultimi si innesta magnificamente l’orchestra con la ripresa del primo tema, in ciò che appare l’inizio di una riuscitissima ricapitolazione e forse il momento più bello del movimento. In essa i due temi fondamentali sono nuovamente ripetuti, con un bel passaggio stavolta in mi maggiore, prima dall’orchestra poi dal solista, per poi ritornare nella tonalità minore d’impianto. Un nuovo sprazzo lirico, anch’esso molto teatrale, prelude ad una rinnovata intensificazione rimica, annunciata da piccoli colpi di timpano: ci si avvia così alla coda, in cui la scrittura si fa di nuovo virtuosistica, e ad un “più presto” con il quale termina, in un ritmo serratissimo, il primo movimento. Una lunga nota di fagotto tiene legati la conclusione del primo e l’inizio del secondo movimento, un andante tripartito che potrebbe ben dirsi “romanza senza parole”, dal tono decisamente lirico. La sezione centrale, in La minore, introdotta dall’orchestra e subito ripresa dal violino, è decisamente più drammatica ed è notevole anche perché il violino vi appare sdoppiarsi assumendo sia il ruolo della melodia che quello dell’accompagnamento. Torna quindi il tema iniziale in Do maggiore, che stavolta si avvia ad una serena conclusione. Il terzo movimento è introdotto da una sorta di prologo moderato che si ricollega direttamente al primo tema del primo movimento. Quindi delle fanfare di trombe annunciano il tema fondamentale del movimento, parimenti famoso, e caratterizzato da tratti folleggianti e capricciosi che non possono non ricordare il Sogno di una notte di mezza estate. C’è una seconda sezione in Si maggiore in cui il solista si impegna in rapidi arpeggi ascendenti e discendenti, e poi una ripresa in cui l’interazione solo-tutti raggiunge effetti di rara efficacia, con una breve coda finale, frenetica e festante.

Dvořák, Sinfonia n. 7 in re minore op. 70

Con Dvořàk torniamo a parlare di nazionalismo musicale o meglio di scuole nazionali, essendo il maestro l’esponente di spicco della scuola musicale ceca, insieme a Smetana e Janacek, ma rispetto a questi ultimi restando il più vicino al classicismo austro-tedesco e il più influenzato da esso. Limitandoci (per modo di dire) al Dvořàk sinfonico, corre l’obbligo di ricordare che delle sue nove sinfonie (numero ovviamente simbolico), solo le ultime cinque fanno parte del repertorio, e che di esse solo una – che non è questa Settima, ma la Nona, “Dal nuovo mondo” – è universalmente nota. Di conseguenza queste sinfonie hanno una doppia numerazione: la Quinta fu pubblicata come Terza op. 76 nel 1888; la Sesta come Prima op. 60 nel 1882, e questa Sinfonia n. 7 in re minore apparve come n. 2 op. 70 nel 1884-85. Seguirono l’Ottava-Quarta in sol maggiore del 1889 e infine l’ultima e famosissima, la predetta Nona in mi minore del 1892-93 (ovvero Quinta), “Dal nuovo mondo”. Esse furono pubblicate dall’editore Simrock di Berlino, l’amico per il cui tramite Dvořàk aveva conosciuto il suo idolo Brahms. La Settima Sinfonia fu un lavoro su commissione, che nacque su richiesta della Società Filarmonica di Londra, a seguito del successo riscosso dalla Sesta, ma forse anche sotto la pressione di un pubblico già entusiasta dell’autore e memore di altre e più facili sue partiture, come le Danze slave, con la loro impareggiabile grazia folklorica. Tuttavia, niente di facile c’è in questo lavoro, che è anzi lungo e ambizioso, e il cui processo creativo dovette essere complesso e faticoso. In esso è facile intravvedere il modello brahmsiano che sta alla base ed in particolare il Brahms della Terza Sinfonia, che infatti Dvořàk aveva ascoltato a Vienna nel 1883 e di nuovo l’anno seguente a Berlino: si noti come la data sia molto vicine a quella di composizione della Settima. In ogni caso la prima esecuzione lasciò abbastanza insoddisfatto l’autore, che invece fu convinto della bontà della sua opera solo dopo altre sue due trionfali esecuzioni, questa volta a Berlino, dirette da Hans von Bulow nel 1889. Del Brahms epico, drammatico, complesso, ma anche fortemente assertivo e coerente, quest’opera ha praticamente tutto, compreso il tematismo poco pronunciato e al contrario molto mutevole e cangiante, fatto di moltissime cellule che si propongono e si rincorrono ma che mai si ripetono uguali; per non parlare della formidabile tecnica orchestrale e della strumentazione che sfrutta un’amplissima tavolozza di colori.

Il primo movimento ha un primo tema misterioso ed inquieto, di fattezze quasi modali (e forse di matrice etnica, cioè slava), esposto inizialmente da viole e violoncelli, a cui rispondono i fiati e che viene poi ripreso e sviluppato con altri materiali da tutta l’orchestra, in un modo che appare vibrante e quasi lacerante. Segue un piccolo inciso più morbido, ma subito si riaffaccia il primo tema, cui segue una transizione cromatica che conduce al vero e proprio secondo tema, di carattere più pastorale. Lo sviluppo, qui, diventa la parte essenziale del discorso, ed esso ha toni spesso epici e tipicamente brahmsiani, a discapito di una ripresa che invece è praticamente assente (grande novità!), così come è sorprendente anche la conclusione che è del tutto sommessa e anti-retorica, fin a quando il tema iniziale è riecheggiato dolcemente da due corni che poi si spengono. Il secondo movimento, “poco Adagio”, in fa maggiore, stabilisce all’inizio un clima di calma elegiaca; ma subito arriva una nota malinconica contrastante, e dopo inizia la seconda parte che è parimenti all’insegna dell’opposizione ma che davvero è descrivibile solo come un lungo “viaggio della coscienza”, all’insegna di immagini evocative (forse memorie di paesaggi campestri) e di spunti che sembrano continuamente spegnersi e rinnovarsi. Solo nominalmente conforme alla tradizione classica è anche il terzo movimento, uno “Scherzo” in forma ABA, che ha la prima parte all’apparenza avente un carattere danzante e baldanzoso, ma che in effetti si basa sulla sovrapposizione di due melodie simultanee eseguite su metri diversi (6/4 e 3/2). Qui Dvořàk si rivela per quello che è, un provetto maestro della polifonia contrappuntistica (come lo era il suo maestro ideale Brahms). La medesima sovrapposizione ritmica persiste lungo il Trio, che si dipana in modo più delicato e capriccioso, sempre caratterizzato dal fatto che i temi, sovrapposti, sfidano qualsiasi tentativo di identificazione. Poi torna lo Scherzo, il cui finale si accende improvvisamente e quasi fa le veci di ultimo movimento. Ultimo movimento – il quarto – che invece c’è, e che è ancor più dei precedenti nel segno di Brahms. La struttura qui è quella di una forma sonata, quindi con la ripresa che questa volta è presente, benché in forma mascherata. L’inizio è di nuovo modale ed ha prima un che di tenebroso, poi di decisamente epico; lo sviluppo vede, analogamente a ciò che era venuto prima, un’elaborata sovrapposizione tematica (e armonica), con alcuni passaggi che colpiscono l’attenzione, come degli arabeschi di fiati molto suggestivi. E la ripresa è, come detto, camuffata; mentre la coda, solitamente retorica e trionfale, si risolve in una ricapitolazione virtuosistica di tutti le cellule tematiche esposte nel corso del movimento (e forse dell’intera partitura), con una finale tonalità di Re maggiore, raggiante.

Teatro Politeama
venerdì 17 marzo 2023, ore 19:00

MARCO ARMILIATO

Direttore | Marco Armiliato
Violino | Giovanni Andrea Zanon

Programma

Bedřich Smetana
La sposa venduta, Ouverture
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Concerto in mi minore per violino e orchestra, op. 64
Antonín Dvořák
Sinfonia n. 7 in re minore, op. 70

Orchestra del Teatro di San Carlo