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James Gaffigan, direttore statunitense considerato tra i migliori della sua generazione, debutta sul podio del Teatro San Carlo sabato 29 ottobre alle ore 18.
Alla guida dell’Orchestra del Massimo napoletano Gaffigan eseguirà Pelléas et Mélisande, op.80 di Gabriel Fauré,Trittico Botticelliano di Ottorino Respighi, e la Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 “Jupiter”di Wolfgang Amadeus Mozart.
Nominato direttore musicale della Komische Oper Berlin a partire dalla Stagione 2023/2024, Gaffigan è attualmente direttore musicale del Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia. Per dieci anni, fino al giugno del 2021 è stato alla guida della Luzerner Sinfonieorchester.
Nella scorsa Stagione ha diretto Manon all’ Opéra National de Paris, Eugene Onegin e Le Nozze di Figaro al Metropolitan Opera, Wozzeck a Valencia Tristan und Isolde alla Santa Fe Opera.
In ambito sinfonico è stato sul podio di orchestre come: Chicago Symphony Orchestra, Atlanta Symphony, Cincinnati Symphony, Deutsches Symphonie Orchester Berlin,
Munich Philharmonic, Staatskapelle Dresden, London Symphony Orchestra, London Philharmonic Orchestra, Royal Concertgebouw Orchestra, Orchestre de Paris, solo per citarne alcune.
Guida all’ascolto
a cura di Emilia Pantini
Dal Settecento al Novecento: capolavori per orchestra
Le musiche di scena firmate da Gabriel Fauré nel 1898, ancorché oggi non la più conosciuta, furono comunque la prima delle molte importanti vite musicali in cui si incarnò il Pelléas et Mélisande di Maeterlinck, vetta teatrale del simbolismo e titolo di riferimento, all’epoca, delle élite letterarie. Il suo autore, lo scrittore belga Maurice Maeterlink insignito del Nobel per la letteratura nel 1911, lo pubblicò nel 1892 e lo mise in scena a Parigi per la prima volta il 17 maggio 1893 al Théâtre des Bouffes-Parisiens. Lì, nella serata inaugurale, lo vide Debussy che subito comprese l’affinità tra il tipo di poetica espressa nel dramma e la sua propria. Chiese dunque al più presto al drammaturgo di poterne ricavare un’opera, cosa cui Maeterlink acconsentì con gioia. La composizione e i passi necessari al debutto furono però travagliati, e nel loro dispiegarsi i rapporti tra Maeterlink e Debussy passarono rapidamente dall’idillio alla tregenda: l’opera non debuttò che il 30 aprile 1902, al Teatro dell’Opéra-Comique.
Nel decennio tra il 1892 e il 1902, mentre Debussy approntava la sua opera, la pièce teatrale aveva continuato ad essere rappresentata con successo. A Gabriel Fauré nel 1898 furono pertanto commissionate le musiche di scena per il debutto del Pelléas in lingua inglese. La committente, Mrs Patrick Campbell (attrice acclamata: sarebbe stata la prima Eliza Doolittle nel Pygmalion di George Bernard Shaw) aveva già tentato un approccio con Debussy che però, impegnato nella composizione della sua opera omonima, aveva rifiutato la commissione. Durante un viaggio di Fauré tra il marzo e l’aprile del 1898 a Londra, il compositore e la Campbell ebbero modo di incontrarsi, e fu allora che la donna avanzò a Fauré l’offerta. I tempi erano stretti a dir poco, perché la pièce doveva debuttare il 21 giugno di quello stesso anno: dunque c’era appena un mese e mezzo per comporre la partitura e qualche giorno per le prove. Riutilizzando pagine scritte in precedenza e facendosi aiutare per l’orchestrazione da un allievo, Charles Koechlin, i 19 brani delle musiche di scena furono pronti per tempo. Fauré in persona ne diresse con successo la prima, al londinese Prince of Wales Theatre, guadagnandosi le lodi di Maeterlinck, della principessa de Polignac (che sarebbe poi diventata la dedicataria della suite), di John Singer Sargent — pittore di culto del bel mondo — e degli happy few londinesi più altolocati. Non si trattò di un consenso estemporaneo, visto che successivamente le musiche furono riproposte in altre messe in scena del Pelléas, anche a Parigi.
La suite op. 80 nacque nel 1901 dalla rielaborazione di quelle musiche di scena. Fauré riprese la partitura, ne scelse dei brani e la riorchestrò con maestria, passando da un piccolo ensemble orchestrale (quartetto d’archi, timpani, arpa, legni e ottoni) a una vera e propria orchestra sinfonica. Alla prima esecuzione ai Concerts Lamoreux nel febbraio 1901 i brani che la costituivano erano tre, cioè il Prélude, la Fileuse e La mort de Mélisande. L’aggiunta della Sicilienne è più tarda, ma fu con essa che infine la suite fu pubblicata nel 1909. Da notare che questo brano, forse il più famoso e riconoscibile grazie alle sue eleganti melodie modaleggianti, era mutuato da musiche di scena precedenti il Pelléas, quelle composte da Fauré per Il borghese gentiluomo di Molière.
È un vero peccato che la fama del Pelléas et Mélisande di Debussy e, in subordine, dell’omonimo poema sinfonico giovanile di Schoenberg (1903) abbiano appannato nella conoscenza del pubblico lo splendore della suite di Fauré, una pagina di costruzione magistrale, intima e al contempo smagliante.
Anche il Trittico botticelliano di Ottorino Respighi è un titolo che oggi non gode del posto nel repertorio sinfonico che meriterebbe: ma è una sorte, questa, che tocca anche al suo autore e, più in genere, a quel gruppo di compositori italiani noti come «generazione dell’Ottanta» (di cui fanno parte Alfredo Casella, Franco Alfano, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco Malipiero), personalità di grande interesse schiacciate però tra il sinfonismo tardoromantico dei compositori d’Oltralpe e tutte le sperimentazioni e le avanguardie del primo Novecento. Di essi, Ottorino Respighi è oggi il più noto grazie al favore di cui ancora godono i titoli della cosiddetta Trilogia romana — cioè Le fontane di Roma (1916), I pini di Roma (1924), Feste romane (1928) — che si guadagnarono subito una vasta popolarità cui concorse l’apprezzamento dimostrato verso di loro sia da Arturo Toscanini sia da Victor de Sabata. Essi resero quelle partiture, soprattutto I pini di Roma, un cavallo di battaglia obbligato, testimone della competenza professionale di un direttore d’orchestra che voglia dirsi davvero degno del prestigio del podio.
Il fatto è che Ottorino Respighi fu un musicista magnifico prima ancora che un magnifico compositore, uno strumentista capace di padroneggiare al medesimo livello viola (il suo strumento di predilezione) e pianoforte. Uno, insomma, che il mestiere lo conosceva bene, dal di dentro, che aveva debuttato in orchestra al Comunale di Bologna — città in cui era nato e aveva studiato, prima di decidere di stabilirsi a Roma —, che era stato prima viola nell’orchestra del Teatro Imperiale di San Pietroburgo, che aveva suonato in quartetto e aveva lavorato come pianista accompagnatore di cantanti: insomma, una formazione eclettica di base che, unita al respiro internazionale della sua attività sin dagli anni giovanili e agli studi di composizione con Giuseppe Martucci a Bologna, con Nikolaj Rimskij-Korsakov a San Pietroburgo e con Max Bruch a Berlino, ne fecero una personalità di prim’ordine nel mondo musicale italiano e non solo. Oggi nel sentire comune a Respighi si fa la grazia di un’etichetta, quella di «grande orchestratore»: e lo è, dei più splendenti, con una fantasia timbrica all’altezza di quella del suo maestro Rimskij-Korsakov, ma è anche un maestro della costruzione formale e, seppur lontano dagli sperimentalismi novecenteschi comunemente noti (no, non è una colpa, soltanto una scelta), è uno sperimentatore spregiudicato del riuso in termini suoi contemporanei della modalità e delle forme del passato.
Ne sono testimonianza i tre brani del Trittico botticelliano, ispirati a tre conosciutissimi capolavori del Rinascimento firmati da Sandro Botticelli: La Primavera, L’adorazione dei Magi, La nascita di Venere. Nel primo di essi, lo sbocciare della bella stagione è descritto da un tessuto sonoro fatto di trilli, tremoli e melodie di danze antiche che si rincorrono con morbida e naturale eleganza; nell’Adorazione dei Magi i tre re che vengono dall’Oriente sono introdotti da un andamento cromatico orientaleggiante e incarnati da tre strumenti — fagotto, oboe e flauto — mentre sentiamo risuonare il canto gregoriano «Veni, veni, Emmanuel» e il settecentesco «Quanno nascette Ninno», meglio noto come «Tu scendi dalle stelle». Nella Nascita di Venere il sorgere della dea dalla spuma del mare è reso dal movimento ondivago degli archi e dal colorito trasparente dell’orchestra. Il tutto immerso in una tavolozza di cromie timbriche delicate e sempre cangianti, frutto della rara competenza idiomatica con cui sono trattati gli strumenti dell’orchestra.
Se Gabriel Fauré e Ottorino Respighi furono ai loro tempi astri di prima grandezza, oggi passati in secondo piano rispetto ad altri loro contemporanei, a Wolfgang Amadeus Mozart toccò la sorte opposta. Ai nostri giorni sarebbe impensabile una stagione concertistica che facesse a meno della sua musica: i suoi contemporanei, però, gli preferivano nomi che adesso dicono qualcosa soltanto agli addetti ai lavori — Niccolò Piccinni, Domenico Cimarosa, Giovanni Paisiello, tanto per farne qualcuno — poco o niente ai semplici appassionati. Dal nostro punto di vista la Sinfonia in do maggiore KV 551 è un capolavoro assoluto del sinfonismo classico, una tappa obbligata di studio per strumentisti, direttori e compositori, qualcosa con cui qualunque professionista sogna di confrontarsi — prima o poi — e il pubblico non è mai stanco di ascoltare. Eppure, anche se sappiamo che fu scritta nell’estate del 1788 insieme ad altre due sinfonie — la KV 543 in mi bemolle maggiore e la celeberrima K 550 in sol minore — ignoriamo non soltanto perché essa e le sue sorelle furono composte, ma persino se chi le ideò sia mai riuscito ad ascoltarle eseguite. Per giunta, fu un getto creativo che sgorgò in uno dei momenti più infelici della vita di Mozart: il Don Giovanni non aveva avuto a Vienna il successo sperato, era morta a soli sei mesi la sua ultima figlia, Theresia, i denari scarseggiavano. Sembra quasi che la sontuosa bellezza della musica messa su carta — forse sostenuta dalla speranza di una qualche “accademia” che potesse sopperire ai bisogni della famiglia — volesse capovolgere sul piano dell’arte una situazione decisamente precaria se non penosa nella vita reale.
Il rapporto del Salisburghese con la forma della sinfonia era iniziato col la KV 16 in mi bemolle maggiore, composta a Londra nel 1764 da un Mozart bambino di appena otto anni: il 10 agosto 1788, nella stessa tonalità e una cinquantina di sinfonie dopo, un Mozart trentaduenne scrive la doppia stanghetta della KV 551, senza sapere che sarebbe stata la sua ultima composizione di quel genere. In essa, noi posteri troviamo un distillato della maestria tecnica accumulata lungo tutta una vita: soprattutto, un trionfo della forma sonata, in cui sono concepiti — o sconfinano — tutti i quattro movimenti. Se per il primo di essi si tratta di una scelta scontata per le convenzioni dell’epoca, tutt’altro che scontata è l’elaborazione capillare cui i temi sono sottoposti ancor prima di arrivare allo sviluppo canonico. Eccezionalmente in forma sonata è anche il secondo movimento, con tre temi che interagiscono in maniera inusitata, e persino la forma binaria del Minuetto presenta zone di sviluppo di stampo prettamente sonatistico. Alla KV 551 si affianca un soprannome, «Jupiter», giunto fino a noi perpetuandosi di decennio in decennio. Le fu apposto da qualche editore per magnificarne le dimensioni generose e, probabilmente, il suo divino quarto movimento, con cinque temi (distribuiti tra zona della tonica e della dominante) che nascono in forma sonata e si rincorrono a lungo per incontrarsi infine tutti insieme in un tripudio contrappuntistico, nel cui splendore non ci stanchiamo mai di perderci.
Emilia Pantini si è laureata in Filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il diploma di pianoforte al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma e di composizione al Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone. È dottore di ricerca in Storia e Analisi delle culture musicali, titolo conseguito presso Sapienza Università di Roma in cotutela con Paris 8 (Études Italiennes). Insegna Poesia per musica e Drammaturgia musicale al Conservatorio “Girolamo Frescobaldi” di Ferrara. È in corso di pubblicazione presso la LIM la sua tesi di dottorato, dal titolo Carriera e storiografia dell’operista del secondo Settecento. Piccinni, gli intermezzi e il repertorio comico romano (1758-1776). Ha pubblicato con Camillo Faverzani e Michela Marconi «Lo sposo burlato» da Piccinni a Dittersdorf. Un’opera buffa in Europa sempre per i tipi della LIM. Studia e pubblica principalmente in merito al repertorio comico del XVIII secolo (sta editando una farsa e una commedia per musica nell’Edizione Nazionale delle commedie per musica di Domenico Cimarosa), e occasionalmente sul repertorio madrigalistico del XVI secolo e la musica del ‘900.
/ Concerto Sinfonico
Teatro di San Carlo
sabato 29 ottobre 2022, ore 18:00
JAMES GAFFIGAN
Direttore | James Gaffigan♭
Programma
Gabriel Fauré, Pelléas et Mélisande, op.80
Ottorino Respighi, Trittico Botticelliano
Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 “Jupiter”
♭per la prima volta la Teatro di San Carlo
Orchestra del Teatro di San Carlo
La Nuova Orchestra Scarlatti con il pianista Francesco Nicolosi e il violoncellista, direttore Luigi Piovano, il 6 novembre 2022 alla Sala Scarlatti del Conservatorio di Napoli
“La guerra dei sessi”: al via le Lezioni di Storia al Teatro Bellini di Napoli, dal 29 ottobre 2022