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José Luis Basso dirige il Coro del Teatro di San Carlo
in capolavori corali di Brahms e Fauré
Venerdì 15 luglio ore 18
La Stagione di Concerti del Teatro di San Carlo giunge all’ultimo appuntamento prima della pausa estiva.
Venerdì 15 luglio alle ore 18 José Luis Basso dirigerà il Coro del Massimo napoletano in alcuni capolavori romantici della letteratura corale di Johannes Brahms e Gabriel Fauré.
Primo brano in locandina Vier Gesänge per coro femminile, corni e arpa, op. 17 di Johannes Brahms (corni Ricardo Serrano eSalvatore Acierno, arpa Agnese Coco).
A seguire, ancora un lavoro di Johannes Brahms, Liebeslieder – Walzer per coro e pianoforte a quattro mani, op. 52, solistiGiuseppina Acierno e Luigi Strazzullo, e al pianoforte Roberto Moreschi e Vincenzo Caruso.
Infine sarà eseguito il Requiem, versione per soli, coro e organo, op. 48 di Gabriel Fauré, voci soliste Laura Ulloa e Giovanni Impagliazzo, entrambi allievi dell’Accademia del Teatro di San Carlo, con Vincenzo Caruso all’organo.
Dalla guida all’ascolto del programma di sala
di Gianluca D’Agostino
Benché fosse un genio assoluto della musica strumentale, o meglio un inarrivabile “sinfonista del pianoforte” (secondo la celebre definizione di Schumann), Johannes Brahms si interessò molto anche al canto ed al coro in particolare, accompagnato da strumenti obbligati o dall’orchestra, oppure anche a cappella. In ciò fu certamente influenzato dall’esempio sublime dei Lieder di Schubert o degli Oratori di Mendelssohn, ma ancor più direttamente dal suo amico, maestro e pigmalione Schumann, che gli suggerì varie volte di studiare anche la polifonia e le canzoni antiche e popolari (analoghe sollecitazioni poterono provenirgli anche da altre personalità parimenti afferenti al suo “circolo”, come Joachim, Hiller o Grimm, o magari collaterali ad esso ma pur sempre influenti, come l’archeologo-musicologo Otto Jahn). Fu tuttavia la sua personale esperienza di direttore corale, prima al castello di Detmold, poi alla guida del coro femminile nella “sua” Amburgo, negli anni 1850-60, a consentirgli di accrescere la confidenza con questo repertorio, di perfezionarsi nella tecnica corale e nella trascrizione dei “Volkslieder”, e ad ispirargli pure delle soluzioni strumentali decisamente personali, che naturalmente risentono della temperie romantica di cui queste pagine sono permeate.
I Vier Gesänge für Frauenchor (Quattro canti per coro femminile, corni e arpa, op.17), composti nel 1859, vanno letti precisamente in questo senso e sono anche tra le prime composizioni corali da lui pubblicate. Il Frauenchor destinatario della partitura era stato fondato ed era pignolescamente guidato dallo stesso Brahms, a margine della sua attività di organista nella chiesa di San Pietro, ma tra le signore e fanciulle che vi partecipavano c’erano anche ospiti fisse dei salotti musicali di case private, dove il maestro dava abitualmente lezioni e concerti. Lì fu stabilito, per l’appunto, che ogni lunedì ci si sarebbe riuniti per cantare, per mero diletto e senza alcuna finalità di lucro, ma comunque impegnandosi seriamente, al punto da redigere un dettagliato “Avvertimento”, scritto tra il serio e il faceto dallo stesso maestro, che tra l’altro prevedeva ammende per chiunque avesse saltato o ritardato alle prove. Accenni a ciò sono anche in una lettera scritta a Clara Schumann, la quale fu subito eletta come membro onorario del coro e a cui si dovette pure l’aver fornito occasione per far conoscere l’opera al pubblico, nel corso di un concerto dedicato alla memoria del marito Robert, durante il quale, come spesso accadeva, suonarono tanto Clara che Brahms (15 gennaio 1861). In tale lettera Brahms afferma: “Ora ci riuniamo amichevolmente una sera alla settimana e credo che le belle canzoni popolari mi intratterranno assai piacevolmente. Penso perfino che imparerò molte cose, perché devo pur sempre esaminare e ascoltare i Lieder con serietà. Voglio veramente impadronirmi del loro segreto. Non basta cantarli una volta con entusiasmo nell’atmosfera adatta. Il Lied naviga al momento attuale seguendo una rotta sbagliata, e non è possibile inculcare a se stessi un ideale. Ed è ciò che il Volkslied rappresenta per me”.
I Quattro canti sono dunque un’opera giovanile, ma evidentemente le intenzioni artistiche ripostevi, e segnatamente la “nuova rotta” impressa al canto, erano tutt’altro che disimpegnate, così come non elementare era la preparazione tecnica della compagine esecutiva. D’altronde il loro maestro non era certo un mero concertatore, quanto piuttosto un serissimo musicista già molto calato, sia pure forse malgré lui, nelle maggiori controversie musicali che infiammavano allora la Germania (contro i lisztiani, o “Neo Tedeschi” che dir si voglia, ecc.). Inoltre, lavorare con il coro gli consentiva di approfondire il tema della musica “popolare” e della cultura folclorica, tema che affascinava Brahms da sempre, ancorché lo concepisse da una prospettiva tipicamente romantica.
Romantico e alquanto “descrittivistica” – ed è un dato che qui salta subito all’occhio – è l’impiego della strumentazione, nel senso che il corno parrebbe utilizzato come simbolo musicale della misteriosa foresta fantastica ed il suono dell’arpa, invece, dovrebbe evocare i venti che soffiano dalle alte montagne, giù verso le verdi praterie. Il resto poi lo fa l’istintiva e a tratti perfino debordante musicalità di Brahms e il suo intensissimo lirismo, sorretto da armonie saporose e mai elementari, anzi già molto accurate e facenti presagire pagine “maggiori”. E si aggiunga, infine, la scelta dei testi, che qui rappresenta un piccolo, ma non spregevole, spaccato di romanticismo letterario e delle sue fonti. Del resto sappiamo che il compositore fu sempre attento a formarsi anche una solida cultura letteraria e particolarmente poetica, e che egli attingeva, per questo scopo, a raccolte come quella pubblicata da Gottfried Herder, Voci dei popoli nei canti: lo stesso Herder che aveva tradotto i poemi epici “ossianici”, comunemente (ed erroneamente, trattandosi di un falso letterario) percepiti come quintessenza dell’arcaica lirica popolare, e di cui abbiamo un saggio nel quarto brano, il Canto da Fingal, o lamento della fanciulla d’Inistore per la morte del suo eroico amante. Questa canzone si distingue per la sua forma estesa e più lunga rispetto alle tre precedenti.
Con i Liebeslieder-Walzer, per coro misto (o “ad libitum”) e pianoforte a quattro mani, op. 52, rimaniamo sempre nell’ambito della produzione minore e “amatoriale”, e in un contesto leggero e verosimilmente festivo (la composizione fu scritta in fretta durante il soggiorno a Lichtental, nell’estate 1869, con la prima esecuzione integrale avvenuta nell’ottobre successivo). Ma siamo anche un bel po’ più avanti nella cronologia; dunque parecchia acqua era passata sotto i ponti, e con essa erano usciti vari capolavori brahmsiani (per esempio nella musica cameristica, ma anche in quella orchestrale, pensiamo alle Händel Variationen). Il maestro ormai padroneggiava benissimo, con stupefacente sincronia ed in egual misura, vari e ben distinti filoni del suo catalogo, tra cui due in particolare: quello della musica “popolare” (le Ventuno danze ungheresi per pianoforte a quattro mani del 1858-69, o i Sedici valzer op. 39) unito a quello dei Lieder e Romanzen per voce sola o corale; e quello del grande affresco sinfonico-corale, della “musica a quintali” (come lui stesso diceva ironicamente al suo editore), quale fu senza dubbioEin deutsches Requiem, che dopo la sua prima esecuzione a Brema proprio nel 1868, fu subito accolto da tutte le associazioni corali tedesche e diede al suo autore vasta fama e risonanza.
Quanto invece all’uomo Brahms, in particolare alle sue travagliate vicende emotive e sentimentali, si sa che egli veniva proprio allora da una cocente delusione amorosa, causata dal diniego della terza figlia degli Schumann, la bionda e avvenente Julie, la quale aveva invece preferito maritarsi, pur giovanissima, con un conte. Ma comunque nulla di ciò (se non una lieve ironia) traspare nei Liebeslieder-Walzer, che sono un chiaro esempio di “musica in miniatura” di altissimo artigianato: diciotto brevi brani nel classico tempo della danza in ¾ e in forma ABB (cioè con il secondo ritornello obbligato), su poesie tratte dalla raccolta Polydora, del modesto rimatore (ma anche teologo protestante) Georg Friedrich Daumer (1800-1875), aventi come temi la natura e l’idealizzazione neo-stilnovista della donna.
Il trattamento musicale di questi brani prevede una sapiente fusione di polifonia vocale (molto libera: a volte a quattro parti, altre volte con una voce opposta alle altre, altre ancora scritte per due parti o per voce solista), con gai ritmi di danza e sulla base di un’arguta e sempre scintillante scrittura pianistica (l’opera può infatti fare a meno del coro ed essere eseguita solo al pianoforte, il quale supporta tutta l’essenzialità del discorso musicale, dispiegando per giunta una grande varietà di scrittura). Siamo, insomma, sotto il segno e nel più puro stile della Hausmusik tedesca, ma con una evidente strizzata d’occhio alla città di Vienna, con i suoi gusti musicali e le sue caratteristiche danze, da quelle sfrenate a quelle più posate, quella Vienna che evidentemente Brahms voleva definitivamente conquistare, perfino a costo di apparire un po’ ruffiano (egli stesso confidò ad un amico: «Rischio di essere qualificato un asino se i miei Liebeslieder non arrecheranno un sentimento di gioia a chi li ascolta»).
Una delle singolarità di Gabriel Fauré, nel panorama sia della musica francese fin de siècle, sia di quella europea, concerne proprio il suo atteggiamento verso la produzione sacra: dal 1870 (verso la fine della guerra franco-prussiana), quando divenne titolare organista della chiesa parigina di Saint-Sulpice e poi di quella di Saint Honoré, e ancor più dal 1874, quando passò a quella della Madeleine (sostituendo Saint Saëns), di cui divenne presto maestro di cappella, egli rimase legato fin quasi alla fine della vita all’ambiente religioso e chiesastico. Ciò non ostante, la sua produzione in questo settore è alquanto ridotta, includendo appunto il Requiem per soli, coro, organo e orchestra op. 48, opera di indubbia grandezza, e poco altro, comunque di livello inferiore. Parimenti anomalo è il fatto che per questa partitura, che a ragione molti considerano il suo capolavoro, benché alquanto “intimistico” e poco appariscente, egli tenne in scarso o nessun conto i modelli del passato. Passato inteso come tradizione, che certo Fauré – addestratissimo com’era alla più severa scuola del contrappunto e della polifonia rinascimentale e barocca – certamente non ignorava, ma che evidentemente voleva superare senza pagare un omaggio obbligato, forte del fatto che il suo orizzonte culturale era decisamente più ampio e vario, debitore del romanticismo tedesco così come di Wagner, ma poi insofferente anche verso lo stesso romanticismo, e quindi rivolto a Franck, a Saint-Saëns, ai simbolisti (piuttosto che agli impressionisti), e naturalmente al (neo)-gregoriano.
Com’è stato spesso e giustamente notato, parrebbe che il maestro francese abbia scelto i brani da musicare della sua Missa pro defunctis con l’intento precipuo di sottolineare non tanto l’idea del fatale e tremendo trapasso, quanto piuttosto quella dell’eterno riposo (idea, del resto, cristianissima, benché lui probabilmente fosse ateo): infatti, non solo cinque dei sette brani costituenti l’opera contengono la parola requiem, ma in uno di essi (il Pie Jesu, proveniente dal Dies irae, che qui sostituisce il Benedictus) l’attributo sempiternam è aggiunto senza l’appoggio della liturgia. A riprova di ciò si può citare quanto l’autore stesso ebbe a dichiarare, difendendosi dalle critiche di “paganesimo”: “Il mio Requiem […] si è detto che non esprime la paura della morte, qualcuno l’ha chiamato una ninna nanna della morte. Ma è così che io sento la morte: come una lieta liberazione, un’aspirazione alla felicità dell’aldilà, piuttosto che un trapasso doloroso […]Non si deve forse accettare la natura dell’artista? […] Da una vita accompagno le esequie, all’organo. Ne ho fin sopra i capelli. Ho voluto fare qualcosa di diverso”.
In effetti, molto libera e personale fu anche la scelta di ricombinare le parti del testo liturgico: egli infatti accorpò sezioni diverse (Introito e Kyrie, Agnus Dei e Communio), trascurandone altre tradizionali (Kyrie II, Benedictus) e interpolandone di nuove (la ripetizione della parola «Sanctus», l’«Amen»), mentre una delle omissioni più vistose, quella del Dies irae – così fondamentale nelle pagine omonime di un Berlioz o di un Verdi – viene bilanciata dalla presenza del Libera me.
Lo stimolo creativo del Requiem, d’altronde, scaturì da motivazioni personalissime e private (mai comunque esplicitate o dichiarate), e cioè dalla perdita a breve distanza di tempo di entrambi i genitori (prima quella del padre, nel 1885, poi quella della madre, a fine 1887). La prima esecuzione avvenne nel gennaio 1888, con l’Agnus Dei e il Sanctus scritti proprio alla fine e quindi ancora freschi di inchiostro; ma allora si trattava ancora di una prima versione dell’opera, in soli cinque movimenti, ossia senza l’Offertoire/Offertorio, che sarebbe stato composto l’anno seguente (1889), e senza il Libera me, che già esisteva (concepito in origine per voce di baritono con accompagnamento d’organo) ma che pure fu aggiunto dopo. Oltre al definitivo ampliamento della partitura a sette brani, fu poi introdotta la voce solista maschile, mentre l’orchestrazione conobbe una revisione generale che la vide accrescersi fino all’organico sinfonico, pubblicato così come oggi appare solo nel 1900.
Una gestazione d’opera, quindi, non proprio facile, segno di un travaglio creativo non indifferente da parte dell’autore: nella versione originale c’era un organico di archi, arpa, timpani e organo, e voci bianche al posto dei soprani, quelle voci dei bambini che dovevano evocare meglio l’idea della purezza celestiale (Fauré tra l’altro dirigeva anche un coro di pueri cantores alla Madeleine); più tarda, e forse suggerita dall’editore, fu anche l’aggiunta di legni e ottoni, che comunque restano abbastanza accessori o inessenziali.
Ciò detto, non è che il prevalente sentimento di “malinconico abbandono”, ravvisato da tanta critica, pervada proprio tutto o che non faccia emergere, qui e là, dei bei contrasti drammatici, di grande effetto e suggestione teatrale, che pure ci sono. E sarebbe anche sbagliato minimizzare la portata nei nessi poetico-musicali, o in generale la grandissima attenzione riposta dal compositore nel porgere il testo in modo intelligibile e sempre molto espressivo, e con felicissima integrazione tra voci, coro, strumenti. Ma ora analizziamo con ordine.
L’Introito iniziale principia con una solenne scansione corale, in ritmo sillabico, che impetra il «riposo eterno», finché una cadenza non chiude il Molto largo introduttivo; subito i tenori attaccano il “Requiem aeternam” con una spunto melodico memorabile di sei note (re4-re4-la3-la3-do4-la3), evidenziato da un movimento orchestrale avvolgente; una breve cesura organistica prelude alla risposta dei soprani (“Te decet hymnes”), cui segue un breve sfogo dell’intero coro di effetto forte e drammatico, in corrispondenza dell’invocazione “Exaudi orationem meam”, che poi gioca su uno stupefacente contrasto di volumi sonori ma anche di chiaroscuri tonali. Attacca quindi il Kyrie che riprende l’inciso suddetto, cui segue un altro breve spunto drammatico in corrispondenza del “Christe” e che comunque poi si spegne placidamente.
Una melodia cromatica, di sapore wagneriano, all’organo, che parte dal grave e poi si rischiara, inaugura il successivo Offertoire (“Adagio molto”), che poi si snoda in modo contrappuntistico con una entrata a canone, decisamente scolastica, fra contralti e tenori, poi allargata alle altre voci (“O domine Jesu Christe”, iterato varie volte) e che subito dopo ha un rallentamento molto teatrale e meditativo in corrispondenza della parole “Ne cadant” (“affinché le anime non sprofondino nel buio”); c’è poi una sezione centrale in corrispondenza delle parole “Hostias et preces tibi”, che – proprio come in Verdi – è solistica: protagonista è il baritono con una linea molto lirica e patetica, su un figurazione di coppie di note legate degli archi. Attacca quindi subito il coro (“O domine Jesu Christe”) in un fitto intreccio contrappuntistico e subito dopo, come accennato, Fauré decise di concludere introducendo nel testo un breve «Amen» polifonico.
Il successivo Sanctus è caratterizzato da un movimento continuo a semicrome di arpa e viole, che introduce il coro angelico interpretato dai soprani (in origine voci bianche) cui rispondono in modo appunto responsoriale le voci maschili. Anche qui c’è un breve contrasto: qualche battuta di carattere marziale in corrispondenza dell’ “Osanna”, un po’ roboante; dopo di che il gioco di arpa e viole riporta alla prima sezione, che riprende gli arabeschi mentre i violini si sciolgono in trilli.
Il Pie Jesu, quarto brano, affidato interamente al soprano solista, è forse la pagina più ‘operistica’ del Requiem, paragonata spesso a una dolce ninna nanna per i defunti, ma potrebbe essere benissimo un’aria d’amore. Tra questa e l’altra grande pagina solistica (Libera me) il compositore ha collocato un grande e articolato pezzo corale, l’Agnus Dei, introdotto da un preludio su cui si innesta, con un tema pervasivo che si muove per grado congiunto, la voce dei tenori, e poi attacca l’intero coro in un episodio in crescendo dai toni drammatici. Anche qui c’è una brusca cesura eseguita in fortissimo da organo e orchestra. A sorpresa riappare l’incipit dell’intero Requiem.
Nel Libera me la scena è per il baritono, cui è affidata una struggente e drammatica melodia sul pulsare di violoncelli e bassi in pizzicato. Risponde il coro prima di cedere al «Dies illa, dies irae», introdotto dal fortissimo ai corni. Lo scenario drammatico sfuma in una nuova supplica di pace per i defunti, poi il coro riprende la melodia del baritono, potenziata nella sonorità, quindi ricompare il solista.
La conclusione (In Paradisum) è una visione delicatissima, dalle lunghe armonie tenute, sostenute da organo e arpa (“piano dolce”). A parte qualche breve intervento corale, il fascino di questa pagina è soprattutto nella voce solista del soprano, che svolge la sua dolce melodia che tocca il re maggiore, totalità che capovolge il re minore d’impianto.
Teatro di San Carlo
venerdì 15 luglio 2022, ore 20:00
JOSE’ LUIS BASSO
Direttore | José Luis Basso
Programma
Johannes Brahms, Vier Gesänge per coro femminile, corni e arpa, op. 17
Corni: Ricardo Serrano, Salvatore Acierno
Arpa: Agnese Coco
Liebeslieder – Walzer per coro e pianoforte a quattro mani, op. 52
Solisti: Giuseppina Acierno, Luigi Strazzullo
Pianisti solisti: Roberto Moreschi, Vincenzo Caruso
Gabriel Fauré, Requiem, versione per coro e organo, op. 48
Solisti: Laura Ulloa #, Giovanni Impagliazzo#
Organo: Vincenzo Caruso
Coro del Teatro di San Carlo
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