Di: Sergio Palumbo
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“Miseria e nobiltà”, scritta da Eduardo Scarpetta nel 1887, è un classico senza tempo. Innumerevoli sono state le sue rappresentazioni, tra le quali restano senz’altro celebri quelle di Eduardo De Filippo ed il film del 1954 di Mario Mattioli nel quale la maschera di Felice Sciosciammocca veniva interpretata dal grande Totò, che il napoletano medio nell’arco della sua vita non vedrà meno di qualche centinaio di volte. Proprio per questo, rappresentare nel teatro che fu di Eduardo quest’opera è già di per sé una scommessa. La posta della scommessa si alza – ma diventa ancora più ardua da vincere – se la regia non si limita ad una semplice copia delle rappresentazioni celebri. Ma la semplice copia non è certo il tipo di teatro a cui ci hanno abituati Luciano Melchionna e Lello Arena, il cui sodalizio, dopo il successo di “Parenti serpenti” (sempre prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro), ormai inizia a diventare una solida realtà nel panorama teatrale italiano. Arena e Melchionna vincono la scommessa con un adattamento che riesce ad aggiungere suggestioni nuove e di grande attualità a questo classico senza tempo, con il risultato di uno spettacolo che è senz’altro esilarante, ma che lascia al pubblico un retrogusto amaro e diversi spunti di riflessione.
Se si può superficialmente pensare che la miseria del testo scarpettiano non sia più attuale, basta pensare ai dati ufficiali sulla povertà per ricredersi immediatamente e l’adattamento di Arena e Melchionna è mirabile nel mettere in risalto, rendendole quanto mai attuali, le disuguaglianze sociali, sottolineando, però, che la miseria non è soltanto quella legata ai fattori economici. La scena degli spaghetti, in questo adattamento, è un vero pugno nello stomaco: Luigino getta dall’alto secchiate di spaghetti peggio di come si darebbe il pastone ai maiali e non c’è da stupirsi se il finale viene modificato da “tra la miseria vera e la falsa nobiltà” a “tra la miseria vera e la falsa… miseria”, aggiungendo: “Sì, miseria… Nobile e umana”. Se Felice, Pasquale e le loro famiglie vivono tra i rifiuti in uno scantinato fuligginoso, muovendosi come ratti alla ricerca disperata di qualcosa da rosicchiare, in un’oscurità claustrofobica che già di per sé inasprisce gli animi di chi ci vive, nella luminosissima casa del ricco Gaetano Semmolone sfila un altro tipo di miseria, dove comunque la fame è comunque all’ordine del giorno, anche se non di cibo: una fame forse ancora più avida e miserabile, come la fame di nobiltà del cuoco arricchito o la fame del corpo della donna bella e giovane del nobile Ottavio Favetti che si finge signor Bebè. Senza dimenticare che, come scrive Melchionna nelle sue note di regia “il palazzo signorile, affrescato e assolato, non starebbe in piedi senza le sue fondamenta buie, umide e scrostate”: nel geniale allestimento scenico, ideato dallo stesso Melchionna e realizzato egregiamente da Roberto Crea, nel secondo atto sotto la casa di Semmolone vedremo il buio tugurio in cui Luisella, abbandonata dai parenti, trama nell’ombra muovendosi, appunto, come un ratto.
Arena e Melchionna, non rinunciano ad aggiungere ulteriori suggestioni di grande attualità, come quelle sul razzismo nei confronti degli immigrati, sull’analfabetismo di ritorno, sull’ignoranza e la mancanza di cultura di coloro che non leggono libri o non vanno a teatro, sullo sfruttamento del lavoro minorile (“I bambini non dovrebbero mai impugnare strumenti di lavoro, ma solo matite colorate”, dirà Peppeniello prima di andarsene dal tugurio).
Luciano Melchionna dirige un ottimo cast, dove la scelta di un mix di recitazioni naturalistiche e caricaturali si rivela vincente per ottenere l’obiettivo di far ridere ma anche riflettere. Lello Arena fa la parte del leone in un ruolo che gli sembra calzare a pennello: il suo Sciosciammocca è un ex professore senz’altro esilarante, ma anche dalla grande sensibilità. Tutti più che all’altezza anche gli altri interpreti: Andrea de Goyzueta (un ottimo Pasquale, in questa rappresentazione ex attore figurante in disarmo), Raffaele Ausiello (un Eugenio tutto da ridere, oltre che voce fuori campo di Biase), Fabio Rossi (che si destreggia molto bene nel doppio ruolo di don Gioacchino e del signor Bebè alias Marchese Ottavio Favetti), Luciano Giugliano (un perfetto Gaetano Semmolone), Marika De Chiara (conturbante nel ruolo di Gemma), Sara Esposito (en travesti nel ruolo di Luigino), Maria Bolignano (vigorosa nel ruolo di Luisella), Giorgia Trasselli (una sgrammaticata quanto divertentissima Concetta), Carla Ferraro, Alfonso Dolgetta ed Irene Grasso (molto bene rispettivamente nei ruoli di Bettina, Vincenzo e Pupella). Un particolare plauso va alla strepitosa interpretazione di Veronica D’Elia nel ruolo di un Peppeniello tutto pepe in cui profonde grinta, energia ed irresistibile simpatia nel suo continuo ripetere “Vecienzo m’è patre a me”.
“Miseria e nobiltà”, nell’adattamento di Lello Arena e Luciano Melchionna, sarà in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli fino al 5 gennaio 2020.
Link: il sito del Teatro Stabile Napoli – www.teatrostabilenapoli.it
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