Di: Sergio Palumbo
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Dopo dieci anni, Luisa Miller di Giuseppe Verdi torna in scena sul palco del Teatro San Carlo di Napoli, dove debuttò nel 1849. Generalmente considerata un’opera di transizione tra le opere giovanili e quelle della trilogia popolare (Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata), Luisa Miller è ritenuto, dai più, un vero e proprio spartiacque nella produzione lirica verdiana, con l’autore che si avviava alla maturità e ad una maggiore interiorità.
Dopo una prima caratterizzata da grandi polemiche nei confronti del regista, Andrea De Rosa, la seconda rappresentazione vede un San Carlo abbastanza gremito (anche se non da “tutto esaurito”) e un pubblico che, inizialmente freddino, nel finale tributa un buon successo a tutti gli interpreti.
La regia di De Rosa è moderna e riporta la vicenda in un non-luogo e un periodo non definito che, anche in virtù dei costumi, si potrebbe ricondurre tra gli anni ’40 e gli anni ’50, con gangster, sgherri e pistole al posto delle spade. L’idea, in sé, non sarebbe malvagia, ma ciò che risulta difficile da digerire è un’eccessiva caratterizzazione dei personaggi, che ne risultano sviliti quando non fastidiosamente volgari. E’ eclatante il caso di Wurm, che entra in scena toccandosi le parti intime, con una spropositata violenza nei confronti del vecchio Miller e della stessa Luisa, con sedie che volano senza apparente motivo, schiaffi e strattonamenti che non trovano alcun riscontro nel libretto e perfino un vago accenno di stupro. Nella regia di De Rosa, Federica, più che a una duchessa, fa pensare alla pupa di un gangster, ma i modi sono smodatamente affettati (ad esempio il piede sinistro sul tavolino con messa in mostra della gamba risulta più sguaiato che sensuale) e non certo per colpa dell’avvenente e brava Martina Belli. La scena del duetto con Rodolfo, sul divano in pelle, sfiora il fetish, con Rodolfo quasi in adorazione dei piedi di Federica: inutile, gratuito e poco credibile, come la maggior parte delle licenze registiche che tradiscono il libretto. Peccato, perché alcune intuizioni del regista sono molto buone. Su tutte, quella della presenza muta della madre di Luisa, personaggio del dramma di Schiller “Amore e raggiro”, da cui è tratta l’opera, non presente nel libretto di Cammarano, che assiste impotente al dramma della figlia, spegnendo nel finale il lume prima del quale si è spenta Luisa (“Pria che questa lampada si spenga, tu starai dinanzi a Dio!”).
Le scene di Sergio Tramonti sono piuttosto semplici, probabilmente anche a causa di un budget limitato, e presentano diverse similitudini con quelle della Cavalleria Rusticana andata recentemente in scena al San Carlo con la regia di Pippo Del Bono, per le quali Tramonti ha vinto il Premio Abbiati. Al centro della scena c’è un letto, sul quale periodicamente cadono pietre (intrigante trovata di De Rosa sul cui significato il pubblico si interroga durante l’intervallo: è il destino che incombe? Lo sgretolarsi della vita o dei valori?). Nel corso dei tre atti le pareti si stringono intorno al letto quasi a volerlo schiacciare. Ai lati, entrano ed escono, all’occorrenza, due piedistalli, a voler raffigurare le case delle due famiglie. Il vecchio Miller siede davanti a un tavolo, con sopra la foto della madre di Luisa, mentre il conte di Walter siede su un divano in pelle marrone con davanti un tavolino con una bottiglia di whiskey e i bicchieri. Grazie a queste scelte scenografiche è possibile semplificare notevolmente i molteplici cambi di scena previsti dal libretto. I costumi di Alessandro Lai sono essenziali, ma ben curati.
Ottimo il lavoro dell’orchestra, diretta energicamente e con grande passione da Daniele Rustioni, che riesce mirabilmente ad amalgamare arie e recitativi, esaltando una continuità che rafforza la resa della drammaticità dell’opera, ben interpretando la partitura verdiana. Buono anche il lavoro del coro, diretto da Marco Faelli.
Nel ruolo del titolo, a causa dell’indisposizione di Julianna di Giacomo, si è esibita Olga Mykytenko, soprano ucraino dal bel colore vocale e dalle ottime doti espressive, ben a suo agio nella parte, sebbene con qualche perdonabile imprecisione su alcuni acuti. Tornato dal trionfo di Budapest (otto minuti di applausi per la rappresentazione della Luisa Miller sancarliana nella capitale ungherese), Luciano Ganci (Rodolfo) si fa apprezzare per lo squillo possente, il bel timbro, le ottime doti interpretative e la grande enfasi nel rendere la disperazione del suo personaggio, anche se, proprio per la troppa enfasi, sul finale del primo atto sembra andare in debito di fiato, migliorando decisamente nel secondo e, soprattutto, nel terzo atto. Il baritono Claudio Sgura, già noto al pubblico del San Carlo per il suo Tonio nei Pagliacci dello scorso anno, seppur artatamente invecchiato, è, con i suoi poco più di quarant’anni, visivamente poco credibile nel ruolo del vecchio Miller, ma dal punto di vista vocale spicca per il piacevole timbro brunito e la buona tecnica. Dario Russo è un Conte di Walter dalla forte presenza scenica e dalla voce sonora e di gran qualità, mentre il Wurm di Felipe Bou difetta leggermente di volume. Bene Martina Belli (Federica) e Michela Antenucci (Laura).
Luisa Miller sarà in scena al Teatro San Carlo di Napoli fino al 10 maggio 2015.
Link: il sito del Teatro San Carlo di Napoli – www.teatrosancarlo.it
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