Di: Sergio Palumbo
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Non c’è nessuno che non conosca la “Madama Butterfly”, opera della piena maturità di Puccini, che il maestro trasse dall’omonimo dramma di David Belasco e che all’inizio fu per lui causa di non poca sofferenza, perché alla prima fu un clamoroso fiasco. Ma poi “la farfallina volò”, come gli aveva affettuosamente pronosticato il Pascoli, estimatore del compositore lucchese per evidenti affinità di sensibilità artistica. Il soggetto conferma ancora una volta la grande modernità di Puccini. La storia della piccola geisha, sposa del giovane ufficiale americano solo per il tempo che a costui occorrerà per togliersi un capriccio, ma che a quel matrimonio per burla crede con tutta l’anima non era solo l’espressione di un conflitto sociale, cosa del resto non nuova nella storia del melodramma. Per esempio, già Verdi nella Traviata aveva rappresentato esemplarmente la vicenda di un rispettabile rampollo della buona società che la famiglia vuole difendere dalla “contaminazione” con una prostituta. Ma Puccini, da vero artista del suo tempo, sente che ormai hanno cominciato a perdere interesse i conflitti tra i rappresentanti di classi sociali diverse, mentre uno dei problemi più vivi e scottanti del nostro tempo stava diventando già allora la disuguaglianza razziale. Non c’è argomento più attuale per noi che ogni giorno viviamo sulla nostra pelle le difficoltà della convivenza con persone di culture diverse, che a loro volta sperimentano il dramma di un’integrazione difficile e problematica, spesso all’origine di tragiche situazioni di sofferenza e di morte.
In Butterfly c’è dunque il sogno frustrato di un’impossibile integrazione che fa tutt’uno con l’amore della piccola giapponese per l’uomo importante e rispettabile, atteso con ostinata fedeltà fino alla morte.
Ma quali che siano le chiavi di lettura, sociologica o psicanalitica, che si vuol dare dell’opera e che ogni regista adegua alla propria sensibilità umana e artistica, c’è poi la musica pucciniana che tutto supera e avviluppa in un flusso di melodie immortali, struggente di dolente tenerezza, che parla l’universale linguaggio dell’amore e del dolore come pochi hanno saputo fare nel panorama lirico italiano.
Merito del regista Fabio Sparvoli è stato quello di non distrarre lo spettatore con un allestimento troppo carico di calore locale, con inutili “giapponeserie” di maniera nella scenografia e nei costumi. Quest’essenzialità esalta il dramma dei sentimenti nella loro universalità, al di là dei tempi e dei luoghi, che è un buon modo per onorare la musica di Puccini sottraendola a ogni effimero gusto per certe mode e per certo folklore.
Ottimi tutti gli interpreti e merita un particolare plauso la giovane soprano Amarilli Nizza, nel ruolo di Cio-Cio-San, che trova accenti di particolare delicatezza nei momenti in cui la parte lo richiede e tiene la scena con naturalezza e con grazia, cosa non facilissima in considerazione degli ampi spazi del palcoscenico dell’Arena Flegrea.
Link: il sito del Teatro Festival Italia – www.teatrofestivalitalia.it
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