Di: Sergio Palumbo

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Il “Don Pasquale” è certo un capolavoro dell’opera buffa del XIX secolo, ben diversa dai semplici schemi premozartiani del secolo precedente (dopo che il genio del grande salisburghese aveva introdotto in quel genere elementi di una nuova gravità drammatica) e che già aveva avuto in Rossini il suo grande interprete. Anche Donizetti pone l’azione e i personaggi nella palpitante realtà concreta della vita quotidiana. Don Pasquale è un vecchio scapolo, un po’ avaro ma in fondo brav’uomo, che per punire il nipote diseredandolo, vuole sposare una giovane donna e così si crea grattacapi a non finire. Ma non si tratta di una maschera comica intesa solo a muovere il riso e a divertire. Il conflitto fra il vecchio con il suo ideale di vita tranquilla e la scatenata sposina è conflitto generazionale e pone problemi etici e sociali che una società più evoluta e moralmente più disinvolta avrebbe in seguito affrontato con più scaltrita maturità e con più cinica consapevolezza.

Come in Rossini, anche nel Don Pasquale si alternano pezzi seri e pezzi schiettamente comici, pagine soffuse di un tono tenero e sentimentale e perfino disperato (come nel monologo di Ernesto che rinuncia alla donna amata per non coinvolgerla nella sua misera sorte) e altre di un brio musicale e di una gaiezza comica vivacissime. Ma l’alternarsi di serio e comico raggiunge un tale equilibrio che il risultato è di straordinaria naturalezza, senza alcuna forzatura caricaturale.

Bisognerà aspettare opere come il “Falstaff” di Verdi e il “Gianni Schicchi” di Puccini, ma soprattutto la produzione di Offenbach perché l’opera comica ritrovi la stessa vitalità e la stessa ampiezza di riferimenti realistici. Tuttavia neppure Offenbach con il suo genio e la sua sapienza tecnica sarà in grado di uguagliare la leggerezza e la schietta freschezza dell’opera donizettiana, sintesi di tutte le conquiste precedenti, ma assimilate mirabilmente in elementi nuovi. Dunque il “Don Pasquale” ha una valenza anticipatrice che la regia di De Simone ha interpretato in modo magistrale. Elegantissima nella sua sobrietà la scenografia, che sfrutta al meglio l’ampio spazio aperto dell’Arena Flegrea con l’intelligente marchingegno del gazebo girevole, costruito in stile liberty, che alternando prospettive diverse supplisce all’esigenza del cambio di scena e consente una più varia e armoniosa dinamica dell’azione. Tutti gli interpreti sono perfetti nel loro ruolo. Paolo Bordogna nel ruolo del protagonista trova gesti e accenti di esilarante comicità, ma esprime anche con calibrato pathos le umiliazioni del vecchio ingannato. Il personaggio di Norina è reso con brio indiavolato e ricchezza di mezzi vocali dal soprano Annamaria Dell’Oste, mentre il tenore Dario Scmunck conferisce al personaggio del nipote accenti teneri e malinconici nell’ampio fraseggio musicale proprio del più tipico “bel canto”, senza tuttavia tradire lo spirito brioso dell’insieme. Vito Priante è un dottor Malatesta di una verve ironica spinta fino al paradosso, ma sempre con estrema finezza e senza alcuna forzatura macchiettistica.

Insomma, uno spettacolo godibilissimo da parte del più ampio pubblico, più e meno colto, che il Festival d’Oltremare quest’anno ha regalato alla cittadinanza napoletana sullo sfondo suggestivo dell’Arena Flegrea.

Link: il sito del Teatro Festival Italia – www.teatrofestivalitalia.it