Di: Sergio Palumbo
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Quando abbandona momentaneamente il suo Montalbano, Camilleri non cessa di scavare nella sicilianità e nei suoi più profondi recessi: arriva così alle radici del mito, coi suoi perenni archetipi umani.
Come in “Maruzza Musumeci”, anche “Il casellante” ci offre un’altra figura femminile che ha riscontro nel mito greco, in questo caso il mito tragico della maternità negata e straziata, per il cui infinito dolore non c’è sbocco possibile che la fuga dall’umano, nella metamorfosi che trasforma Niobe in pietra, dopo che l’invidia degli dei l’ha privata dei suoi figli. Nel romanzo di Camilleri Minica, nel suo sogno di maternità come assoluta ragione di vita, incarna il tipo della donna del Sud la cui femminilità si esplica essenzialmente nel dare la vita, come l’albero vive per dare frutti. Quando quel sogno è distrutto dalla violenza che la circonda, quella del singolo stupratore cinica e insensata quanto il cieco sterminio della guerra, la donna sembra impazzita. Tuttavia la sua follia ha una profonda coerenza: vuole diventare un albero, per dare quei frutti che il suo corpo di donna non può più dare. Ma a Minica la sorte, più clemente che con l’antica Niobe, offre un’altra opportunità, scaturita anch’essa dalla violenza assurda della guerra. Intorno a Minica e al paziente e amorevole marito, sullo sfondo, c’è la guerra con il suo orrore, gli immancabili uomini d’onore e le vanagloriose aberrazioni del fascismo, la cui involontaria comicità fa da valido contrappunto all’amara tragicità della vicenda.
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