Di: Sergio Palumbo
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Il commissario Cataldo è uno che riesce a sbrogliare i casi più delicati, non tanto per la capacità di vagliare e interpretare i dati tecnici di un omicidio, ma soprattutto per la sensibilità umana che gli permette di penetrare nei meandri del cuore umano e farne emergere gli inconfessabili segreti. Nel caso di due assassini commessi in un tribunale, quello di un giudice e quello di un usciere, due persone che niente accomuna e che neppure si conoscono ma vengono uccise contemporaneamente dallo stesso omicida, le indagini del commissario sembrano arenarsi per mancanza di un movente plausibile che accomuni le due morti. Quando poi a queste se ne aggiunge un’altra, anch’essa senza apparenti connessioni con le precedente, la vicenda sembra diventare ancor più assurda e incomprensibile. Ma Cataldo si lascia guidare dal suo istinto e, leggendo nelle sfumature di parole, gesti, atteggiamenti, i segni appena percettibili di stati di coscienza accuratamente dissimulati, trova quella traccia che la sua perseveranza segue passo passo fino alla scoperta della verità. Aveva commesso un errore di prospettiva mettendo le due morti in un rapporto sbagliato e questo gli aveva impedito di capire chi fosse il vero bersaglio dell’assassino. Ogni scoperta tuttavia porta con sé dolorose riflessioni sulla assurda banalità del male e sulle umane perversioni, che non risparmiano neppure i legami più sacri. La vicenda è ambientata a Modena e la cittadina sembra riprodurre in scala ridotta le contraddizioni e le nevrosi della grande metropoli, con i suoi personaggi inquietanti, le sue luci e le sue ombre. Affiorano alla memoria certe torbide atmosfere, pregne di malinconia e di mistero, proprie dei romanzi di Simenon. Ma la fisionomia umana del commissario Cataldo è più problematica ed emotivamente coinvolta rispetto al suo omologo Maigret. Molto pregevole la nitida accuratezza espressiva, senza sbavature né concessioni a certa volgarità postmoderna.
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