Di: Sergio Palumbo
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Il protagonista racconta, con l’apparente leggerezza dell’autoironia, le proprie vicissitudini che, pur nella loro casualità bizzarra, configurano una quotidianità piatta, subita in modo nevrotico e che solo il frequente ricorso agli ansiolitici rende meno soffocante. Eppure Gregorio Parigino ha una moglie bella e intelligente, due bambine, un lavoro di insegnante che non gli dispiace (anche se deve arrotondare con qualche articoletto e qualche discorso accademico), un numeroso parentado e degli amici affezionati. Ma la moglie non accetta certi suoi lati caratteriali e glieli rinfaccia spesso, le bambine impongono una continua attenzione che limita gli spazi individuali, i parenti sono sanguisughe, gli amici si installano a casa sua e reclamano una costante assunzione di responsabilità nei loro confronti che, se negata o trascurata, provoca in Gregorio penosi sensi di colpa. Poi, a complicare le cose, intervengono i casi accidentali della vita: due banali incidenti che gli causano la frattura della gamba e, poi, di un braccio; l’incontro con una donna conturbante con la quale, però, per l’irresolutezza di entrambi il rapporto resta inconcludente e velleitario; la candidatura alle elezioni imposta dal solito amico invadente che si risolve in una serie di peripezie che sfiorano il grottesco. Intorno c’è la realtà paesana di un luminoso Sud i cui vecchi schemi economico-sociali e di costume sono sempre più incalzati dal nuovo che avanza e spesso si sgretolano, lasciando un drammatico vuoto. Così Gregorio, tipico “uomo senza qualità” ma profondamente conscio dei propri e degli altrui limiti, è schiavo di ricorrenti attacchi di panico, che forse altro non è che paura di quel vuoto. Per superarli – altro segno dei tempi – non c’è che il ricorso all’ausilio della chimica: la pastiglietta prodigiosa che permette al nostro eroe di rimettersi in piedi e riprendere il consueto tran-tran col sorriso sulle labbra. Pur nella puntuale precisione dei riferimenti umani e socio-culturali, il racconto sembra procedere in modo svagato, con frequenti flashback che irrompono nel passato senza un preciso ordine cronologico, ma per trasalimenti emotivi dal sapore dolceamaro dove l’amaro è alla fine il gusto predominante.
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