Di: Redazione

Tempo di lettura stimato: 4 minuti

Autore: Massimo Cotto

Titolo: L’ultima volta che sono morto

Anno di edizione: Ottobre 2005

Casa editrice: Aliberti editore

“Una narrazione intimistica che si apre su risvolti psicologici inquietanti, nella più pura tradizione del noir. Con questo romanzo Massimo Cotto entra a pieno titolo nel mondo degli scrittori dall’ingresso principale” (Giorgio Faletti)

“Ce ne fossero tante, storie svolte con questa abilità” (Fernanda Pivano)

Strand Hotel, Irlanda. Non quella di gnomi e folletti, ma l’Irlanda delle passioni, dei colori intensi che più di così non si può, degli spazi vergini. L’Irlanda “Mediterraneo del Nord”, l’Irlanda del mare, delle tempeste. L’Irlanda scritta, e che lascia segno, nella pietra. L’Irlanda immortale. Che guarda e continuerà a guardare. Un uomo che parla. La sua storia, il suo passato. Dice il non detto, dice il mai detto; dice, forse, anche il segreto. Un presupposto dei più affascinanti: raccontarsi agli sconosciuti.

Così, da zero. Così, per caso. Senza paura, senza timori. L’incontro di tre solitudini, mute e impacciate a liberarsi. Ma c’è Robert che fa gli incantesimi, con la voce. C’è un centro. Robert apre la sua scatola magica, il suo Vaso di Pandora, e dentro c’è la seduzione: il calore delle storie di casa, il confine tra ricordo e invenzione, il dubbio (sarà vero?), l’offerta del poter comprendere, e giustificare. C’era una volta Cesco, il padre di Robert, che scoprì l’America da bambino, portando Bob Caputo, enorme soldato americano, uno di quelli della liberazione, a scoprire il nascondiglio segreto dietro le bottiglie di Moscato, che c’erano stati anche dei partigiani lì dentro. C’era una volta un grande amore, Cesco e Teresa, visti e sposati, con l’entusiasmo, e la gioia del loro romantico, piccolo passato assieme; feste di paese, la lunga lotta di lui per averla, perchè lottò, e quanto! Ma tanto lo sapeva, che era lei che voleva, che era lei l’unica possibile, che era lei che gli era destinata. C’era una volta quello che nelle favole viene sempre dopo il “vissero felici e contenti”, e cioè l’avventura lontana del viaggio di nozze, caldo e straniante in un paese che parla altre lingue e altri colori e altri cieli, e la gioia di tornare a casa con il primo di una mandria di bambini. E lei che rimane bellissima, e sorride. E Cesco che racconta la loro storia ai figli. Le storie di famiglia. C’erano una volta i menestrelli di paese, che ci sono ancora, attorno ai loro piccoli focolari, in stanze chiuse, ma che con tante orecchie a disposizione fanno i miracoli, e rendono veritiera la meraviglia dell’uomo che non parlava mai e veniva dal fiume, con un bambino che un giorno se ne partì; e lo scherzo di smarrire tutti i conigli; e altri amori, altre forze arcane a loro disposizione, permeano di calore e luccichio quella continua scoperta che è la quotidianità dei bambini. C’era una volta il dolore, non da fratelli Andersen, che quello fa, forse, solo paura. Qui c’era una volta un amore che non dovrebbe esistere, tra fratello e sorella, ma così immenso che non si può, non sarebbe umano, proprio è impossibile rinunciare anche a un morso, rinunciare del tutto, anche all’illusione di quello che non potrai avere. Che non è per te. Che non è tuo. Qui c’era una volta la morte con tutti i suoi riti, con tutti i suoi passaggi. I suoi messaggeri ti avvisano prima, se li sai vedere, come il Banshee nelle fiabe d’Irlanda, e ti lasciano il tempo di piangere una, due, mille volte: Teresa si è spenta e Cesco è a metà, e si consuma piano, ogni giorno.

Ci sono figure spezzate, allo Strand Hotel. Brani, solo, sappiamo delle loro vite: sappiamo le loro perdite, i loro tasselli mancanti, dov’è la “falla”. Muoiono sempre e unicamente donne, allo Strand Hotel, muoiono donne con la M. La prova più schiacciante, però, non la possono leggere quelli che stanno là, a preoccuparsi e proteggersi e indagare e cercare segni e tracce. La prova più schiacciante non la si vede, non è alla loro portata. Un amore eterno, e talmente furioso, ed egoista, come tutti gli amori folli, da farti a brandelli, e non lasciarti nemmeno uno scampolo di futuro. Mi amerai per sempre. Ti amerò per sempre. Ti cercherò nel volto di ogni donna.

“Il primo ricordo è quel rosso, il secondo le mani, il terzo la vita che fugge, il quarto è la porta che sbatte nel frastuono di mutismo e dolore. Il primo ricordo è quegli occhi, il secondo il suo sangue il mio sangue, il terzo noi due che niente ma niente ma niente è successo, il quarto il latrare di un cane. Il primo ricordo è un cuore che batte e nell’altro silenzio, il secondo un ritmo distante di vecchia canzone che penetra dentro su lama tagliente, il terzo è il sorriso irreale che non vuole svanire, il quarto il sapore di cera e di pianto, di lacrime e mare. Il primo ricordo è il nome di lei, il secondo il nome di lei, il terzo il nome di lei, il quarto i mille nomi che lui dovrà avere. E una sola preghiera. Così sia. Dannato per ora, per ore, per sempre. Lei, la sua unica colpa, il più grande peccato. Lui, l’assassino.” (cit. p. 11)

Massimo Cotto, nato ad Asti nel 1962, vive tra Roma e Milano. Per anni direttore artistico di Radiouno RAI, giornalista per alcune tra le più note testate, dirige oggi la rivista “Rockstar”. E’ scrittore di musica: ha pubblicato numerose monografie di successo su artisti italiani e internazionali, tradotto Tom Waits e Leonard Cohen: e di teatro: è suo il lancinante monologo Cry baby – L’ultima notte di Janis Joplin. Questo è il suo secondo romanzo. Col primo, Hobo, – una vita fuori giri, si è aggiudicato nel 2003 il Premio Speciale Cesare Pavese.

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