Di: Sergio Palumbo
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Le prime manifestazioni del Neapolis Festival erano chiamate “Neapolis Rock Festival”. Il festival del 2005, invece, si chiamava “Carpisa Neapolis Festival”. Il problema non è dato dalla ragione sociale della società della tartarughina verde, ma dalla mancanza di “Rock”. Non è puramente un problema linguistico, ma è un problema che investe, soprattutto, il cast di questa edizione del Neapolis. Già lo scorso anno ebbi seri dubbi sulla presenza degli Air, che tediavano il pubblico in attesa di una grandiosa performance di David Byrne. Nel vedere, quest’anno, una serata (quella del 7 luglio) dominata dalla musica elettronica (Resina e Kraftwerk sul palco principale, quello dell’Arena Flegrea) ho avuto non poche perplessità, purtroppo confermate, dovute alla mia avversione per la musica elettronica. Questione di gusti. E’ stato un Neapolis segnato da polemiche e da cancellazioni di nomi importanti dalla lista degli artisti. Prima i The International Noise Conspirancy e poi, con grande delusione da parte di buona parte del pubblico (me compreso), gli Afterhours. La cancellazione “last minute” degli Afterhours causa forti polemiche e richieste di rimborsi di biglietto; sul forum del sito del Neapolis ci sono le copie dei comunicati stampa al vetriolo degli Afterhours e dell’organizzazione del festival, nonché la diffida agli artisti. Ma non è questo che interessa al pubblico: quasi tutti erano trepidanti per il concerto della band di Manuel Agnelli e le loro aspettative sono state tradite. Non importa di chi è la colpa, il risultato è una serata del 7 luglio in cui c’è stato ben poco di interessante. Nel Metropolitan Stage gli attempati ma energici, prorompenti e decisamente bravi NoMeansNo scaldano il pubblico per poi lasciare la scena agli onirici Piano Magic, i cui brani a tratti ricordano le esplosioni soniche dei Giardini di Mirò. E mentre i Piano Magic portano avanti il loro miniconcerto, nell’Arena Stage inizia il concerto dei Resina. Non capisco il perchè di questa sovrapposizione, o meglio lo intuisco e lo imputo alla necessità di contenere i tempi. Eppure, da sempre, il troppo stroppia e forse era meglio limare meglio il cast piuttosto che costringere il pubblico a fare delle scelte. Nel mio caso, non c’erano dubbi: assolutamente Piano Magic. Iniziano quindi gli headliner della serata: i Kraftwerk. Non capisco perchè abbiano questo successo e questo seguito. Le scenografie sono bellissime, ma la musica è elettronica pura, decisamente inascoltabile. Certi brani rasentano l’assurdo, come “Vitamin”, che consiste in un elenco di composti chimici e di molecole varie. Lo slancio più poetico del brano è “Carbohydrate, Protein, A, B, C, D Vitamin”. E come diceva Peppino De Filippo: “E ho detto tutto”. I Kraftwerk concludono in tuta “tecno” con “Music Non Stop” e spariscono dalla scena simulando una navicella spaziale che porta i quattro tedeschi in orbita. Non è mai troppo tardi. Concluso il concerto dei Kraftwerk si ritorna al Metropolitan Stage, dove iniziano poco dopo a suonare gli LCD Soundystem. Il loro punk è vivace, mai banale e mai scontato. Trascinano il pubblico che si riprende dalla sbornia di elettronica. Bella performance, tranne lo strazio di “Losing My Edge”, una specie di sermone che annoia un po’ tutti i presenti. Pezzo forte della serata è l’interminabile (circa mezz’ora) soundcheck che precede i Kasabian. Ovviamente sono sarcastico. In scaletta alle 0,30, i Kasabian iniziano a suonare alle 1,30. Una esibizione per pochi intimi, che finisce con ancor meno intimi, dato l’orario e dato che questi novelli Oasis dal vivo non convincono come hanno convinto in studio. La serata dell’8 luglio è senz’altro più soddisfacente. I Marlene Kuntz sono bravi e dal vivo sanno dare grandi emozioni. Purtroppo la scaletta li boicotta, poiché il loro inizio precede di poco l’apertura dei cancelli dell’Arena Stage e l’inizio dell’esibizione di Tom Mc Rae. Quasi tutti optano per lasciare i Marlene per trovare qualche posto decente per i concerti di Tori Amos e Nick Cave. Peccato. Tom Mc Rae è sul palco con la sua chitarra e una brava violoncellista. E’ un bravo cantautore, viene spesso paragonato a Jeff Buckley, non a torto. Poco meno di tre quarti d’ora per lui, poi deve cedere il palco a Tori Amos. Bellissima, è sola sul palco e regala grandi emozioni con la sua stupenda voce mentre si divide tra un pianoforte e un organo. Decisamente affascinante. Infine, è il momento del protagonista indiscusso di questa due giorni di musica all’Arena Flegrea. Nick Cave è accompagnato da tre elementi dei suoi “Semi Cattivi”: il violinista Warren Ellis, il bassista Martin P. Casey e il batterista Jim Sclavunos. E’ una performance grandiosa, trascinante, avvolgente. Il pubblico lo adora e lui si fa adorare. Addirittura qualcuno dei più devoti riesce a salire sull’altissimo palco e ad abbracciare il cantante australiano. Complimenti alla security: un esaltato con una t-shirt bianca sale sul palco e ci resta per circa tre o quattro minuti saltellando, facendo gesti sconci, dicendo chi sa cosa in un microfono (per fortuna spento) trovato sul palco e cercando di suonare il pianoforte insieme a Nick Cave. Solo dopo un po’ qualcuno della security capisce che non è uno dei Bad Seeds e lo porta via. Un altro devoto, decisamente meno folle, sale sul palco e chiede e Nick Cave un abbraccio, che ottiene; viene inseguito da un membro della security e vola giù dal palco, fortunatamente senza conseguenze. Nick Cave si gira e gli dice: “Take it easy, brother!”: decisamente un grande. Per il resto parla la musica. La versione della originariamente malinconica ballata Henry Lee è uno stravolgimento completo dell’originale, ma è geniale nella sua costruzione e nel suo riarrangiamento. Il pubblico canta con lui facendogli il coro nel blues “Oh mama”. Stagger Lee (“l’uomo più cattivo del mondo”, come lo definisce Cave prima di attaccare il brano a lui dedicato) è sensazionale, emozione allo stato puro. Un live indimenticabile. Si chiude con un dj set al Metropolitan Stage questa discussa edizione del Neapolis Festival. Tutto sommato, il bilancio, fatto di alti e bassi piuttosto vistosi, è ancora una volta positivo. Si poteva senz’altro fare di più per organizzare meglio il tutto. Si poteva evitare la cancellazione del live degli attesissimi Afterhours. Eppure, vince la musica. E, su tutti, l’intramontabile Nick Cave. Ringraziamo l’agenzia di Daniele Mignardi (www.danielemignardi.it) per averci dato l’opportunità di poter raccontare ai nostri lettori questo grande evento.
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